Django Unchained mi ha dato meno di quanto mi aspettassi. Quello che ho scoperto di Tarantino in quest’occasione è che si destreggia molto meno bene con gli eroi maschi di quanto riesca a fare con le eroine femmine. E in effetti, andando a ricordare la sua filmografia, di veri eroi maschi ce n’è pochi per non dire nessuno. Non si può dire che siano eroi, nel senso stretto del termine, quelli di Pulp Fiction perché sono tutti declinati sul piano dell’ironia e soprattutto della messa in discussione di ogni etica, inteso come etica nel cinema. Una per tutte la scena, al principio del film, in cui Travolta e Jackson parlano della moglie di Wallace in termini estremamente condivisibili e arguti. Ma ci danno le spalle. Poi l'inquadratura diventa frontale, loro spalancano la porta e mitragliano. Come a dire che loro sono questo, gente che trivella le persone senza problemi.
L’unico eroe di Pulp Fiction potrebbe essere, manco a dirlo, Bruce Willis, il quale però ricordiamoci che viene sottoposto a una cura medievale, che non è esattamente quello che fa di te un eroe.
Non sono eroi quelli delle Iene, Jackie Brown è femmina e insomma, la lista ripassatevela voi, fino a Bastardi senza gloria, in cui la ciurma dei bastardi è alla fine una banda di sconclusionati chiassoni americani e chi sistema tutto è lei.
Ma questo aspetto debole di Tarantino non era mai emerso prima. Mai, in effetti, era emerso un aspetto debole in Tarantino: mi aveva stupito tantissimo, per esempio la sensibilità di Bastardi senza gloria, prima volta in cui si confrontava con la realtà e con dei fatti storici.
Ora che invece si è trovato a fare un western con il necessario cliché del maschio eroe silenzioso e inaccessibile Tarantino ci si è buttato ma non ne è uscito benissimo (ma come dargli torto).
Il mio commento a caldo sul film è stato che visto l’elevato tasso di ormone del film, di tutti i western che ho visto in vita mia, quello che Django mi ha richiamato alla memoria è Lonesome cowboys di Warhol/Morrissey.
Quindi insomma Tarantino ha un po’ pagato dazio su questo, secondo me. Anche il rapporto con la lei della situazione aveva poco pathos. Alla fine la scena più interessante di lei è stata la finale, quando batte le mani ilare, troppo sadicamente ilare, vedendo la casa che scoppia. Un film classico avrebbe voluto che lei si gettasse tra le braccia del suo eroe, non che gongolasse nel vedere decine di morti. A Tarantino è scivolata un po’ la mano sui suoi binari soliti, diciamo.
Detto ciò, avercene di film così, per carità.
Poi ho visto Anna Karenina, che ovviamente sono andata a vedere per torturarmi un po’. Ma mi ha abbastanza deluso. Questa messinscena metateatrale è troppo sopra le righe e concettuale per poter trasmettere il pathos di una storia che alla fine abbisogna solo di semplicità. Ma la semplicità non è facile… Quindi, forse per gestire gli intrecci delle storie, forse per esaltare la superficialità della nobiltà pietroburghese, coerentemente con Tolstoj, il regista (che confesso, non conosco perché non ho visto Orgoglio e pregiudizio) si è inventato questa trovata alla Baz Lurman, senza essere Baz Lurman. Una trovata sopra le righe che quasi mai restituiva quello che prometteva. Sembra quasi che Wright fosse intimidito dal gran peso specifico del romanzo.
Peccato, molto peccato, ma almeno mi ha fatto venire voglia di leggere questo mattonazzo (che, confesso, non ho mai letto) per vedere come davvero stanno le cose. Almeno dai primi indizi sono matta come Anna Karenina. O forse in ogni femmina c’è un’AK.
El Sicario Room 164 è il film che Gianfranco Rosi ha girato prima di Sacro Gra ; è stato presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 2010 e anche in altri festival dove ha raccolto un tot di premi. Il film è in sé semplice: ispirato da un articolo apparso sull' Harper's magazine che raccontava la storia di un sicario messicano assoldato dal narcotraffico, Rosi è andato a intervistarlo. Quindi il film è l'intervista a quest'uomo, il cui volto è coperto da una specie di pesante drappo di cotone nero ricamato. Molto semplice. L'intervista avviene in una stanza di un motel di Juarez, città dello Stato di Chihuahua situata a 30 km dal confine con gli USA e considerata la città più pericolosa del mondo. In quella stanza il sicario, di cui mai si fa il nome, torturava e talvolta uccideva le vittime. Il film è semplice in apparenza ma in realtà contiene già le intuizioni relative alla dialettica tra fiction e documentario che Rosi ha poi dispiegato
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