El Sicario Room 164 è il film che
Gianfranco Rosi ha girato prima di Sacro Gra; è stato presentato
nella sezione Orizzonti di Venezia 2010 e anche in altri festival
dove ha raccolto un tot di premi.
Il film è in sé semplice: ispirato da
un articolo apparso sull'Harper's magazine che raccontava la storia
di un sicario messicano assoldato dal narcotraffico, Rosi è andato a
intervistarlo. Quindi il film è l'intervista a quest'uomo, il cui
volto è coperto da una specie di pesante drappo di cotone
nero ricamato. Molto semplice.
L'intervista avviene in una stanza di un motel di Juarez, città dello Stato di Chihuahua situata a 30 km dal confine con gli USA e considerata la città più pericolosa del mondo. In quella stanza il sicario, di cui mai si fa il nome, torturava e talvolta uccideva le vittime.
L'intervista avviene in una stanza di un motel di Juarez, città dello Stato di Chihuahua situata a 30 km dal confine con gli USA e considerata la città più pericolosa del mondo. In quella stanza il sicario, di cui mai si fa il nome, torturava e talvolta uccideva le vittime.
Il film è semplice in apparenza ma in
realtà contiene già le intuizioni relative alla dialettica tra
fiction e documentario che Rosi ha poi dispiegato con grande
maestria in Sacro Gra.
Innanzitutto perché quello che il
sicario racconta è materia fortemente cinematografica. Diversamente
da Sacro Gra che raccontava qualcosa di totalmente imprevedibile e
imprevisto, quello che qui il sicario racconta l'abbiamo visto un
milione di volte in film e telefilm e il suo racconto rischia fortemente di perdere
forza. A questo rischio Rosi non si oppone ma semplicemente, con
un'etica straordinaria, lascia che il sicario parli e si esprima.
Solo di rado il racconto viene interrotto da quei campi lunghi e
silenziosi come un respiro, che già abbiamo visto in Sacro Gra,
della città, delle case, delle strade, dell'anonimato. Case e
giardini che qui, un po' lynchianamente (ma solo un po'), dopo avere
ascoltato il racconto dell'ennesima tortura ti chiedi che cosa
nascondano.
Per il resto il film è affidato
soprattutto alla verve del sicario che tiene in mano un quadernone e
un pennarello e accompagna tutto ciò che dice con disegni
stilizzati, spesso solo rettangoli e frecce, qualche volta omini. Non
riesce a tenere ferme le mani, disegna in continuazione e allora ti
trovi davanti questo quadernone che potrebbe essere uno storyboard,
come se fossimo nella preproduzione di un film, di Traffic, per esempio. E ci ritroviamo nella
fiction. Non so se sia stato Rosi a chiedergli di disegnare ma
sicuramente lui lo faceva con una naturalezza inconsueta.
E poi, poiché era davvero un attore
nato, ogni tanto il sicario si alzava e mimava quello che stava
raccontando, faceva finta di avere il telefono in mano, faceva finta
di soffocare qualcuno nella vasca da bagno vuota. Ancora fiction,
perché il racconto è fiction. Inevitabilmente: anche quando raccontiamo i cazzi nostri a un amico fidato, in fondo, non possiamo che passargli della fiction per quanto più sincera possibile.
Verso la fine quando il sicario stava
raccontando il suo pentimento, ha cominciato a scorrere le pagine del
quadernone e a puntare il pennarello violentemente, come se davvero
cercasse lì la sua vita. Non bastava nemmeno a lui il racconto...
Mi è sembrato quasi che in questo film
Rosi abbia messo a fuoco gli obiettivi da perseguire. A cominciare dalla sincerità nell'impotenza, direi. Del resto, talvolta, i limiti sono punti di orientamento.Quindi, in un certo senso, Rosi in Sacro Gra ha fatto quello che il sicario ha fatto in questo film.
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